Marocco 2004
E’ sera. Disteso su uno sdraio nel giardino del mio casale di campagna, nell’alto Lazio, guardo le stelle e cerco di indovinare le costellazioni: grande carro, piccolo carro, la stella polare. Invidio chi, con sicurezza e maestria degna di un navigante di altri tempi, le individua e le mostra ai malcapitati presenti, dando sfoggio di ampie nozioni di astronomia. Io non ne sono mai stato capace. Cerco di immaginare come sarà il cielo nel Sahara, senza inquinamento luminoso e senza tutti i sapientoni delle stelle.
Non posso non pensare all’ imminente partenza per il Marocco con la moto, e non posso evitare di “sentire” il mio corpo integro. I tanti racconti di cadute, le statistiche che indicano il Marocco come il paese nordafricano con il più alto tasso di mortalità per sinistri stradali, gli avvertimenti di prudenza nelle prefazioni di tutte le guide lette, mi spaventano e, con spirito ormai rassegnato ad una sensazione che non mi abbandona da molto tempo a questa parte, penso che il mio fisico, al ritorno, potrebbe anche non essere più integro come ora.
Mi alzo, l’incanto è rotto e posso ormai preparare una borsa con poche cose e cercare di dormire.
11/08/04
Un amico mi passa a prendere alle 7,30 della mattina per accompagnarmi a Roma. L’aeroporto di Fiumicino è pressoché vuoto. Sembra quasi irreale. Nei tanti viaggi di lavoro fra Milano e Roma, e nelle tante attese nei due scali aerei, ho sempre avuto modo di soffermarmi sulle stranezze di alcuni personaggi presenti nei gates di attesa, su quanto e cosa leggono, sui pc portatili che non abbandonano mai e sulle chiacchiere inutili, involontariamente ascoltate, fatte in un auricolare del telefono. Oggi, però, questa modesta attività di passatempo mi è negata. Il mio gate ha quattro persone, fra le quali un extracomunitario senza uno straccio di bagaglio. So che è un’idiozia: potrebbe avere al seguito cinquanta valigie che ha provveduto ad imbarcare in fase di check in, ma il mio pensiero corre al dirottamento islamico, ad un attentato alla 11 settembre italiana contro la Torre Velasca o Palazzo Marino. Sul bus siamo in ventisei passeggeri da distribuire su un 737. Trascorro tutto il tempo del mio volo ad osservare “l’islam” seduto una fila davanti a me. Finalmente atterriamo. Milano è poco più afosa di Roma e con un cielo opaco di una tristezza unica. Rino ed Elvira, due dei miei otto compagni di viaggio mi vengono a prendere a Linate. E’ una sorpresa piacevolissima, anche perché del tutto inattesa. Con loro, e grazie a loro, mi lascio trascinare in una sorta di trance agonistico da viaggio. Già siamo proiettati verso la partenza prevista per domani mattina.
Giunto a casa, preparo le borse laterali della BMW, riempio il borsone che metterò al posto del passeggero e stivo le ultime cose. La moto è bellissima. Solo chi cavalca le due ruote può comprendere appieno la sottile soddisfazione che si prova nel guardarla pronta, ritta sul centrale, perfettamente bilanciata nei pesi dei bagagli distribuiti, con cura e precisione quasi chirurgica, sui lati e sulla sella.
Prima di dormire scambio qualche sms con Valentina, mia figlia: ha ereditato da me la passione per le due ruote e mi dice che se avesse una 125 verrebbe con me…
12/8
Il ritrovo è alle 7 in Piazza Belfanti. Sembra una mattinata come tante; un appuntamento per un giro di un centinaio di chilometri di allenamento, come tanti fatti negli ultimi mesi. Invece ci siamo. Il viaggio programmato per tanto tempo, e con particolare cura, sta per iniziare.
Partiamo in sette: Giovanni, Andrea, Rino, Elvira, Laura, Daniela, (del tutto nuova all’esperienza motociclistica) ed io. Cristina ci raggiungerà a Casablanca. Le moto sono vicine e la classica foto è d’obbligo: una Ducati ST2, una Ducati Multistrada, una Kawasaki 750 ZR7, una Kawasaki 500 GPZ, una Ducati Monster 600 Dark, una Bmw 1150 R. Daniela sarà al seguito di Andrea.
Non c’è nemmeno un enduro. Chi ha saputo in precedenza del viaggio, e soprattuto del luogo prescelto, ha espresso forti dubbi sulla affidabilità delle Ducati e sull’inadeguatezza delle Kawa e della Bmw. In cuor nostro siamo convinti del contrario e speriamo che si siano sbagliati.
L’avvicinamento a Genova è tranquillo. Poco traffico e caldo non opprimente. Gli ultimi chilometri ci regalano un bell’acquazzone. Non mi voglio fermare per indossare la tuta antiacqua, con il risultato che arrivo in porto zuppo.
Vediamo la nave al molo e ci prende un senso di scoramento. Le immagini pubblicitarie che la Co.Ma.Nav. divulga sul sito internet paiono del tutto inveritiere. Malgrado sia un traghetto di appena una quindicina di anni, mostra tutta la mancanza di cura nella manutenzione esteriore. Ampi spazi di ruggine a prua, e lungo le fiancate, conferiscono un aspetto triste e poco rassicurante ad una barca acquistata dalla Minoan greca, solo pochi anni prima.
Vediamo le auto in coda per l’imbarco: sono vecchie Mercedes, furgoni sconquassati, station wagon che lasciano spazio solo al guidatore ed al passeggero di fianco, e qualche utilitaria. Tutte stracariche di masserizie, frigoriferi, qualche lavatrice, mobili usati e ciarpame vario. Ci chiediamo come facciano a marciare e come riescano a superare i controlli della Polizia Stradale.
Sulla nave ci saranno, oltre a noi, altri otto o dieci italiani in tutto, di cui, turisti, solo quattro. Il resto sono marocchini e berberi che rientrano in patria, colorati nelle loro vesti originali, qualcuno in tuta, altri in jalab e con vesti strane. Già si sentono a casa e nei loro occhi non si legge quel senso di sgomento che, spesso, si vede quando, in Italia, svolgono lavori che nessuno di noi vuol più fare. In qualche maniera e del tutto inspiegabilmente, quella moltitudine umana, variopinta e vociante, mi infonde un senso di serenità e di tranquillità.
13/8
Il viaggio è abbastanza monotono. Andrea festeggia con noi il suo compleanno. Buona parte della mattina e metà pomeriggio sono destinati all’espletamento di alcune formalità doganali: controllo dei passaporti, apposizione di un visto, dichiarazione di temporanea importazione della moto. Obbligatoria un’assicurazione per la responsabilità civile del modesto costo di 93 euro per un mese! Un vero furto, ma le compagnie italiane non coprono il Marocco e senza una copertura assicurativa del mezzo non si può entrare.
14/8
La mattina ci svegliamo con il c.d. “corno da nebbia” nelle orecchie: non si vede ad un passo e con cadenza ritmica di circa un minuto, un suono prolungato e mesto, rallegra le ultime ore di navigazione.
Solo dopo Gibilterra, la nebbia si alza. Siamo arrivati. Sbarchiamo alle 16,30, ora locale (due ore in più rispetto all’Italia) con un ritardo notevole.
Assolutamente devastanti le formalità doganali a terra. Perdiamo circa due ore per far verificare alla polizia ed alle guardie di frontiera quanto predisposto a bordo. Poi, finalmente, usciamo dal porto e ci tuffiamo nel traffico caotico e disordinato di Tangeri. Quanto letto nelle guide è niente in confronto alla realtà del traffico automobilistico locale. Per due volte, quasi entro con la moto nella portiera di un mini taxi che mi taglia la strada e, dallo specchietto retrovisore, vedo Laura fare altrettanto. Comincio a preoccuparmi.
Nelle vicinanze del porto, la città è veramente brutta e decisamente sporca. Prenotiamo un albergo per il rientro del 29 e, finalmente, usciamo alla volta di Chefchaouene.
Sono 120 chilometri di strada nemmeno tanto brutta, spazzata da un vento abbastanza forte che mi costringe ad un’andatura inclinata quasi da bolina. Prendo un paio di imbarcate anche a causa dell’asfalto disconnesso e rallento un po’.
Chefchaouene appare ai nostri occhi proprio dietro ad una serie di curve e lo sguardo di insieme è veramente bello. Il paese ha una dominante di case bianche ed azzurre che mi ricordano i vicoli dei paesini del Peloponneso.
Facciamo una gran fatica a trovare un posto per la notte. Tutti gli alberghi sono pieni. Solo al Rif (scopriremo poi che il 75 % degli alberghi in Marocco si chiama “Rif”) troviamo due camere in sette. E’ un albergo assurdo, bagno con la tenda in luogo della porta in una camera, e bagno con una porta che deve rimanere obbligatoriamente aperta, pena l’impossibilità ad utilizzare i sanitari, nell’altra! Il tutto a poco meno di 10 euro a notte, compresa la prima colazione.
La cosa, comunque, suscita una certa ilarità in tutti noi: celie e prese in giro, soprattutto verso Rino, durano per un po’. Ceniamo nella medina in un posto veramente simpatico. Tajine di pollo, cous cous (alla fine della vacanza ci uscirà dagli occhi!) tajine di montone, di carne e di verdura, Coca Cola, acqua e thè alla menta per soli 7 euro a persona!
Ci rilassiamo e, dopo una breve passeggiata per la medina, vuota di persone, ma animata da gatti e gattini, andiamo a dormire, non senza il timore di trovare in camera qualche ospite ad otto zampe.
15/8
Nella camera non ci sono gelosie o tapparelle, ma solo una tenda leggerissima, con il risultato che alle 5 di mattina sono sveglio. Mi affaccio e vedo le moto. Del marocchino che aveva incarico di controllarle durante la notte, al momento, nessuna traccia. Esco nell’aria frizzante della mattina. Chiamo Valentina e Marco faccio loro gli auguri di buon Ferragosto.
Consumiamo una buona colazione, anche grazie ad alcuni dolcetti locali acquistati da Rino ed Elvira dopo la loro corsa mattutina e decidiamo di fare un giro per la città. Il proprietario dell’albergo, gentilissimo e disponibilissimo, ci suggerisce di vedere le cascatelle del torrente che attraversa la città, le donne che lavano tappeti e panni in lavatoi ricavati dalla roccia, e la medina.
Anche questa mattina, la sensazione è di essere in un altro posto, non nel Nord Africa. La cittadina ricorda la Grecia e, sotto la montagna, mi riviene in mente Kalambaca e le Meteore.
La gente è discreta, non ci aggredisce spingendoci ad acquistare la merce esposta nei negozi e non è insistente. Siamo nel Rif e sappiamo che in quelle alture coltivano la marijuana. Quasi ad ogni angolo ce ne offrono un po’ ma, anche in questo caso, al nostro inevitabile rifiuto, nessuno insiste.
Intorno alle 12, lasciamo Chefchaouene alla volta di Meknes. Strada buona e tranquilla ci dicono. In realtà l’asfalto è pessimo. Dietro diverse curve troviamo brecciolino ed Andrea, che apre il gruppo, riesce sempre ad alzare un braccio per avvertirci.
Incappiamo in 4 o 5 chilometri di asfalto liquido, con breccia buttata sopra per fare sottofondo. Nessuna segnalazione stradale preventiva. Faccio in tempo a scalare tre marce, mi impongo di non toccare i freni e lascio andare la moto. Entro in seconda ed i sassi picchiettano moto, giacca, casco. L’asfalto imbratta tutto. Scalo in prima e spero finisca presto.
Quando la strada torna praticabile, ci fermiamo per verificare i danni. La Kawa di Elvira scaldava all’inverosimile: un sasso aveva bloccato la ventola di raffreddamento. Le moto sono una schifezza, ma dovremo tenercele così fino al ritorno.
Dopo 180 chilometri di strada dal fondo variabile, arriviamo a Meknes, città imperiale dalla storia particolarmente ricca.
Programmiamo per il giorno dopo una visita a Volubilis, importante sito archeologico romano, distante pochi chilometri.
16/8
Cristina, per telefono, ci informa di uno spiacevole contrattempo. L’agenzia di viaggi che ha staccato il suo biglietto aereo non ha confermato il volo nelle 72 ore precedenti ed ora, a Malpensa, è costretta ad una lista d’attesa interminabile. In più l’aeromobile della RAM ha un guasto e subisce un ritardo considerevole nella partenza. Anziché in mattinata, come previsto, decollerà in serata e sarà a Casablanca solo intorno alle 23. Giovanni, ed Andrea che si è offerto di accompagnarlo, slitteranno di un giorno il viaggio a Casablanca e vengono con noi a Volubilis.
Il sito archeologico è stupendo.
Mosaici perfettamente conservati e mantenuti, resti di edifici, bagni, archi di trionfo e porte di accesso alla città ci impegnano per quasi tre ore.
Siamo accompagnati da una guida non ufficiale. Un “ragazzo” berbero di una trentina d’anni, molto serio, molto ben preparato nella lingua italiana e nella storia del sito archeologico, per soli 12 euro complessivi, ci guida attraverso le rovine, per nulla avaro di spiegazioni ed approfondimenti, rispondendo in modo esauriente alle numerose domande di tutti noi. Si chiama Hamid e l’incontro è per noi piacevole e propizio. Il suo approccio con noi è stato discreto, per nulla insistente, e, comunque, molto differente da quello di altre improvvisate guide. E’ dignità la sua, e non mi dà l’impressione di cercare elemosina. Sembra quasi spinto ad offrire la sua conoscenza più che per necessità, per un reale piacere di conversare di storia, di romani conquistatori e di antiche usanze. Gli chiedo di farci da guida anche a Meknes, ma, gentilmente, rifiuta. E’ un berbero, lui, e non un arabo, e non se la sente di venderci ai negozianti della medina.
Dopo averci chiesto il nostro itinerario, ci propone una sosta ad Azrou, sua città natale, crocevia di boschi di cedri, cascate e laghi citati sulla guida, ultimo avamposto prima degli altipiani desertici e rocciosi dell’Atlante. Il programma prevede l’arrivo in mattinata, la gita sino a tutto il pomeriggio, la cena a base di “vero” cous cous casalingo ed il pernottamento. Il tutto per 10 euro a persona, facendo una certa fatica ad “estorcergli” il prezzo: secondo lui dovremmo prima provare ed apprezzare l’ospitalità marocchina e solo dopo, eventualmente, dimostrare la nostra riconoscenza.
Dopo una breve consultazione, accettiamo, offrendo esattamente il doppio, consapevoli che, comunque, è veramente poco.
La giornata termina con un tuffo nella piscina dell’albergo ed una gita nella medina di Meknes.
17/8
Andrea e Giovanni partono di buon ora per Casablanca, mentre tutti noi concordiamo con un tassista extra urbano una gita a Fes, altra città imperiale, famosa nella storia del Marocco. Sono circa 50 chilometri da Meknes, fatti tutti in un’autostrada quasi deserta su una vecchia Mercedes di almeno trenta anni, ad una velocità media di 45 chilometri all’ora. Siamo disperati. Il tassista non parla una parola di inglese, guida malissimo e non conosce minimamente Fes. Riesce a farsi abbordare da una guida non ufficiale che, ovviamente, ci accompagna malamente in giro per la città. L’esperienza è negativa. Mohamed, così si chiama, non sa nulla della storia di Fes, cerca di farci comprare erbe ed artigianato locale e ci lascia nel classico ristorante per turisti. All’uscita non lo vediamo. Di corsa torniamo nel luogo convenuto per l’appuntamento con il nostro tassista. Quasi all’uscita di Fes, ormai certi di aver comunque “seminato” Mohamed, lo vediamo spuntare con un motorino ed il tassista, che non è certo un fulmine di guerra, si fa raggiungere. Gli diamo quanto convenuto non senza coprirlo di insulti per il suo comportamento scorretto e torniamo a Meknes.
In albergo, abbracciamo Cristina e facciamo l’ultimo giro nella medina della città. Visitiamo la Medersa, l’università coranica, ed il mausoleo di Ismail Mullai, feroce fondatore della città.
18/8
Inizia la tappa di avvicinamento al deserto, nostra vera ed agognata meta.
Arriviamo ad Azrou, dove Hamid ci attende presso un distributore di benzina. Andiamo a casa sua e qui iniziano le prime sorprese. La casa, piccolina, è composta da un modesto ingresso, una piccola cucina, e due camere ai lati. Una occupata da altri ospiti, e l’altra per noi. Ci offrono pasticcini, pane con un olio buono, ma con un grado di acidità notevole, e l’immancabile thè alla menta. Mi chiedo dove e come dormiremo di notte, ma preferisco rimandare la risposta. Mi accorgo, con sgomento incredulo, che non c’è bagno. Nell’ingresso avevo notato un piccolo lavandino con una mensola ed un po’ di dentifrici e spazzolini da denti, ma mi ero limitato a registrare la cosa evitando di credere a quanto avevo già capito. L’unica possibilità di esercitare le proprie funzioni corporali riposa in una “turca” ricavata in un sottoscala, senza acqua di scarico, deputando a tale funzione un secchio sotto un rubinetto. Sono disperato, ma rimando il problema sperando, quasi, in un’altra soluzione.
Partiamo per la gita. Hamid sale in moto con me: Elvira e Rino non se la sentono di portarlo, mentre Laura ha una moto decisamente scomoda per un passeggero, mentre Giovanni ed Andrea hanno Cristina e Daniela. E’ senza casco, ma dice che non c’è assolutamente problema. Il problema ci sarebbe, in realtà, perché in Marocco il casco è obbligatorio come in Italia; se cadiamo ed Hamid si fa male, non so proprio come metterla con l’assicurazione, comunque andiamo ugualmente. Polizia locale e Polizia Stradale ci ignorano.
Dopo pochi chilometri di salita, arriviamo in un bosco di cedri popolato di macachi. Pare che quello sia l’unico posto in Marocco ove sono insediate quelle simpatiche bestiole. Mangiano dalle nostre mani dolci e noccioline e facciamo tutto, ma proprio tutto, quello che i naturalisti consigliano vivamente di evitare. Foto a non finire e via per i laghi. La strada è bruttissima, brecciolino dietro ogni curva, stretta e tortuosa, ed alla fine degrada in una pista in terra battuta e sassi. Arriviamo in quello che Hamid ha chiamato “lago”: una landa desolata, popolata da capre, qualche pecora, molte ranocchie, qualche asino ed uno sparuto gruppo di pastori nomadi. L’acqua è un grosso stagno, per niente salubre e per niente pulito. Ripartiamo alla volta dell’altro specchio d’acqua, distante una cinquantina di chilometri. Quando dalla moto lo vediamo, Hamid mi chiede se scendere e fare una sosta. Gli dico di no, che non ne vale la pena, e proseguiamo per le cascate. La strada peggiora e non ne possiamo più.
Le cascate, in realtà, sono un rigagnolo d’acqua che alimenta un torrentello con qualche salto. Piccole rientranze nella roccia a lato, (rectius: caverne) fungono da luogo di sosta e di ristoro. Tappeti stesi per terra aiutano il “turista” a non massacrarsi la schiena.
Un paio di chioschi danno un minimo di conforto con acqua ed il solito thè. Nè un bar, nè un locale per così dire normale, nè un bagno: utilizziamo lo stesso spazio degli animali. Mi sento un cavernicolo e non vedo l’ora di ripartire.
La sera, finalmente ad Azrou, abbiamo conferma che il bagno della casa è effettivamente quello che abbiamo visto la mattina e non c’è alcuna possibilità di lavarsi. Andiamo in un Hammami: Rino che era il più restio a farsi massaggiare da un uomo, cede di fronte al sudore ed alla voglia di lavarsi e, con una riluttanza che scatena ilarità in tutti noi, finalmente, riceve le cure di un esperto in massaggi…..
Il cous cous casalingo è veramente buono, ma le sorprese non finiscono. Dormiamo in otto in 15 metri quadrati di stanza, quattro per terra, e quattro disposti sulle panche intorno al muro.
E pensare che avevo visto un albergo con quattro stelle sulla strada principale…..
19/8
La giornata inizia malissimo: Cristina vede ritirarsi da uno sportello bancario la carta di credito che aveva utilizzato per prelevare del contante. La banca marocchina si rifiuta di riconsegnarla se non riceve precise istruzioni in tal senso dalla banca italiana di Cristina. L’inconveniente si risolve in un paio d’ore. Ripartiamo da Azrou preoccupati perché il viaggio è lungo, non sappiamo le condizioni della strada e, sicuramente, scendendo a sud, farà un caldo impressionante.
La strada si rivela bella, abbastanza dritta, con un buon fondo, e panoramica. Il paesaggio intorno a noi è profondamente cambiato. Dal verde acceso delle coltivazioni ai bordi delle strade e dalle case quasi simili alle nostre, si passa pian piano ad un deserto di pietrisco, roccia vulcanica scura, ad altipiani battuti dal vento e dalla sabbia, ed alle case di un solo piano, rossicce-marroni, rettangolari o quadrate, senza tetto ma con una modesta copertura, ed alle prime Kasbah.
La prima tappa è Errachidia. Tutte case rosse, strade molto larghe e poca gente. Ha un fascino particolare. Decidiamo di proseguire per Erfoud allungando di altri 60 chilometri. Ne abbiamo già percorsi 260, ma la stanchezza, ancora, non si fa sentire. Inizia la valle dello Ziz. E’ uno spettacolo mozzafiato. La strada corre a mezza altezza, sulla sinistra l’altipiano e sulla destra, in basso, il fiume. Non lo vediamo: è completamente coperto dalle palme verdissime e, questo, è l’unico colore che si vede oltre al rosso della sabbia e delle poche kasbah. Da un punto panoramico, vediamo lo Ziz: le sue palme si snodano come un serpente per diversi chilometri, sino a morire nel pieno Sahara.
Arriviamo ad Erfoud e, visti gli scarsi alberghi, scendiamo a Merzouga. L’Algeria è a meno trenta chilometri, l’Erg Chebbi, la grande Duna, si staglia alta alla nostra sinistra.
Siamo arrivati. Troviamo posto a pochi metri dalle dune in una Kasbah che, con soli 15 euro a notte, ci garantisce riposo, prima colazione e cena.
Guardo i due giardini interni, soffusamente illuminati, alzo gli occhi al cielo e vedo, finalmente le stelle che, invano, tentavo di immaginare solo poche sere prima in Italia.
20/8
Ci svegliamo alle 6, pronti per un giro con le Land Rover sulle dune.
Rino è stato malissimo durante la notte: febbre alta e brividi che seguono un paio di giorni di forti disturbi intestinali. Non sappiamo se attribuire il suo stato alla stanchezza del viaggio (il giorno prima abbiamo percorso più di 400 chilometri in un’unica tappa fuori da ogni autostrada) ovvero ad una infezione, o, ancora, al fatto che, sordo ad ogni nostro monito, ha fatto lunghi tratti di strada sotto un sole cocente….in canottiera! Prende uno dei miei antibiotici e decide di venire con noi sulle dune. Lo sconsigliamo, ma non se la sente di rimanere nella kasbah sotto un caldo soffocante (non abbiamo aria condizionata).
In effetti è caldissimo, ci saranno già almeno 40 gradi, ma almeno è secco.
Il giro si rileva da subito entusiasmante. Visitiamo un villaggio di negri, ex schiavi ormai liberati dalla loro condizione ed ascoltiamo la loro musica tribale.
Ci portano in una cava di kajal: una buca profondissima da dove viene estratta una pietra che contiene il kajal.
Pochi chilometri più oltre, giungiamo in una spianata piena di centinaia di fossili.
Un accampamento di nomadi costituito da una tenda, una casa di argilla e paglia ed un pozzo, sono l’unico patrimonio di un vecchio di almeno 80 anni, peraltro portati benissimo. Ci bagniamo la testa, e ci rinfreschiamo, avendo cura di non bere, anche se la tentazione è forte. Rino sta un po’ meglio, ma, in compenso, Elvira comincia a febbricitare.
Ripartiamo per giungere in cima ad una duna dalla quale lo spettacolo è fantastico. Al di sotto, un’oasi di palme si stende per qualche centinaio di metri quadrati. E’ abitata, e due bambini corrono, scalzi, per raggiungerci. Vogliono venderci delle bamboline fate da loro. Ne compriamo quattro e siamo profondamente inteneriti, anche se i marmocchi sanno far bene i loro affari….
Diciamo ad Elvira e Rino di rientrare, non ce la fanno più e si vede lontano un miglio, ma loro vogliono andare ugualmente avanti, almeno fino a quando Elvira non si stenderà sul sedile della Land Rover e non arriveremo in una kasbah, dove riusciremo a rinfrescarci facendoci una doccia quasi interamente vestiti. Beviamo diversi litri d’acqua e ci riposiamo ascoltando tre pezzi di percussione eseguiti dalla nostra guida, Hassan.
Elvira, finalmente, si lascia convincere a tornare in albergo, mentre noi proseguiamo per una passeggiata a piedi su una duna. Ci saranno 50 gradi e la sabbia è intoccabile.
La sensazione, comunque, è unica ed indescrivibile. Abbiamo percorso, in quattro ore, circa 120 chilometri, passando fra una duna ed un’altra, attraversando piste molto battute e piste meno trafficate, compresa quella sulla quale è transitata la mitica Parigi Dakar. Abbiamo ammirato il disegno della sabbia dopo l’azione del vento, il cambiamento di colore a seconda della posizione del sole, il silenzio assoluto e la mancanza di ogni richiamo alla civiltà ed ai consumi ed abbiamo capito di essere veramente in un altro mondo.
Solo al ritorno, pian piano, una parvenza di civiltà di viene incontro sotto forma di magazzino artigianale nomade. Entriamo ed ognuno di noi si lascia convincere ad un piccolo acquisto. Chi non lo fa subito, lo rinvia al giorno seguente. Decidiamo, infatti, di rimanere quanto sarà necessario per la guarigione di Elvira e Rino e, quindi, ce la prendiamo veramente comoda.
Stanno ancora molto male ed Elvira annuncia che l’indomani, alle 5, indipendentemente dalle sue condizioni se ne andrà per raggiungere le Gole del Dades, in montagna, dove, spera, farà più fresco. Ci spiazza, non riusciamo a convincerla della pericolosità del suo intento e non resta che sperare che le sue condizioni migliorino o che, almeno, “rinsavisca”.
21/8
I nostri compagni stanno sempre molto male. Le condizioni di Elvira sono decisamente peggiorate e viene colta da una crisi isterica. Si lascia convincere da Hassan e dal proprietario della Kasbah a farsi fare dei massaggi sul viso, sulle spalle e sul petto con il sapone di Marsiglia. Pare, secondo loro, che sia un rimedio eccezionale. In effetti è così. Nel giro di poche ore la febbre sarà scomparsa del tutto.
Noi usciamo ancora nel deserto, questa volta con le moto.
Solo Giovanni, Andrea ed io ce la sentiamo di prenderle. E’ un po’ faticoso per via della sabbia finissima. Mi pianto con la ruota di dietro ed affondo. Ho commesso l’errore di fermarmi e di non “navigare”. Riesco comunque ad uscire da solo da quell’impantanamento asciutto e raggiungo il limite estremo della prima duna. Ci fermiamo lì e scattiamo diverse foto. Ci raggiungono tanti bambini. Sono bellissimi e di una tenerezza infinita. Ci chiedono una cartolina dal nostro paese per vedere dove viviamo, qualcuno vuole salire sulle moto e noi lo accontentiamo. Hassan li lascia salire sul tetto della Land Rover e loro gridano felici. E’ incredibile, ma lo spettacolo mi commuove.
Nel pomeriggio, circa verso le 18, usciamo di nuovo, diretti verso le dune dietro la nostra kasbah. Questa volta siamo a piedi, la sabbia è più fresca e soffice. Capiamo subito che sarà bellissimo. Si sta bene, non fa più molto caldo e man mano che ci addentriamo verso l’interno delle dune ci invade una sensazione di pace, di gioiosa trepidazione e di curiosità. Ci lasciamo rotolare più volte lungo i fianchi delle dune ed assistiamo alla metamorfosi del colore della sabbia man mano che il sole tramonta. Rientriamo fra le mura rassicuranti della Kasbah che è quasi buio.
22/8
Ci svegliamo alle 5,30. Cerchiamo di fare più in fretta possibile per assecondare il desiderio di Elvira e Rino che vogliono partire con il fresco. Purtroppo in albergo non hanno ancora preparato la macchinetta manuale per le carte di credito e la prima colazione è in ritardo. I nostri due compagni sono già pronti, con le moto cariche e già vestiti. Visti i tempi differenti che governano le nostre soste, i nostri risvegli ed i nostri ritmi, decidono di partire e di staccarsi dal gruppo, saltando anche la prima colazione. Restiamo intesi che ci sentiremo con qualche sms in serata.
Alla fine siamo pronti. Ripercorriamo la pista che conduce sulla strada asfaltata ma, prima di lasciare definitivamente l’Erg Chebbi, ci fermiamo, spegniamo il motore della moto ed ascoltiamo il silenzio del deserto. Le dune sono di un rosa pallido che cambia intensità in modo quasi visibile man mano che il sole si alza. Ancora una volta sono abbagliato dalla bellezza del luogo. Faccio fatica a riaccendere il motore ed ingranare la prima. Mi concentro sul nastro di asfalto e non guardo più alla mia destra.
Raggiungiamo nuovamente Erfoud e da lì prendiamo una deviazione per Ouarzazate. La strada non è particolarmente bella, la sabbia in molti punti ha invaso la carreggiata ed occorre prestare molta attenzione. Il paesaggio cambia rapidamente. Dalla sabbia rossa e dal deserto si passa al c.d. Jebel, altipiano, cioè, di roccia e pietra vulcanica, arido e senza nulla. Arriviamo alla valle del Draa. Non è particolarmente bella né panoramica come alcuni ci avevano anticipato ed il viaggio fino ad Ouarzazate è, tutto sommato, monotono. Non riusciamo nemmeno a raggiungere un simpatico albergo con ristorante gestito da un belga situato nelle gole del Dades vista la pista non asfaltata lunga circa 23 chilometri. Arriviamo ad Ouarzazate in serata, giusto in tempo per un bagno turco nell’Hammami dell’albergo e per un rapido incontro con Rino ed Elvira alloggiati altrove.
23/8
Finalmente consumiamo una prima colazione a buffet, mangiando tutto il possibile!
Partiamo da Ouarzazate nella tarda mattinata, dopo aver chiesto al locale ufficio turistico di trovarci un riad a Marrakech. L’ottimo francese di Giovanni, ancora una volta, ci trae d’impaccio. Prenotiamo e mandiamo un sms a Rino ed Elvira, partiti già da un bel pezzo, con l’indirizzo.
La strada per Marrakech è faticosa: sono più di 200 chilometri che “spezziamo” con tre soste di ristoro. Saliamo sino a quasi 2.000 mt di altitudine, con una serie infinita di curve e tornanti, facendo anche fatica a sorpassare camion e pullman. La geologia dei luoghi cambia in continuazione. Da una tonalità ocra delle montagne a ridosso di Ouarzazate, si passa ad un bel giallo, per poi finire, nelle vicinanze di Marrakech, ad un rosso mattone pressoché uniforme. Entriamo in città, passando dalla medina, violando un divieto di accesso, e prendendoci una serie di insulti in arabo e berbero del tutto incomprensibili. Finalmente sbuchiamo nella mitica pizza Jma el Fna proprio verso l’imbrunire, quando inizia a popolarsi di banchi e banchetti di ambulanti che cuociono carne alla griglia. Qualche difficoltà a trovare il riad, poche centinaia di metri in un’isola pedonale, ma alla fine giungiamo a destinazione. Lasciamo le moto in un bruttissimo garage sulla piazza, buio, sporco e dall’aspetto poco rassicurante. Caricano tutte le borse ed i bagagli su un carretto e ci accompagnano in albergo.
Il riad è veramente bello, con una terrazza adibita a ristorante all’ultimo piano e camere piccole ma, tutto sommato, pulite.
Consumiamo una cena decisamente buona e programmiamo la giornata seguente.
24/8
Alle 8,30 ci incontriamo con una guida ufficiale. Ci scorta, a piedi, per le tombe Sahadiane, per il quartiere ebraico, al mercato del pesce, alla Medersa di Ben Jussef e nella medina. E’ inevitabile una visita in una erboristeria ed in un negozio di artigianato locale, peraltro carissimo. I marocchini, anche quelli seri ed “ufficiali”, come il nostro, proprio non ci riescono. Non possono fare a meno di lucrare sui turisti portandoli nei vari negozi e botteghe…..Non mi sfugge l’avvicinamento di un ragazzo che, con scaltrezza e discrezione, infila fra le mani della nostra guida un rotolo di banconote.
La mattinata termina con un giro nella piazza, mentre, nel pomeriggio, seguiamo il suo consiglio di fare il giro delle mura della città in carrozzella. Idea pessima: un vento fortissimo, che alza sabbia e terra, spazza la città oltre le mura e ci impedisce ogni vista, peraltro poco interessante.
A cena incontriamo due amici di Cristina da poco arrivati dall’Italia ed in partenza per un giro nel sud come il nostro.
25/8
Completiamo la visita della medina da soli. La città non entusiasma nessuno: è puzzolente, sporca, poco affascinante a, tolta la piazza, non è diversa dalla altre realtà cittadine del Marocco. Il caldo è opprimente, quasi peggiore di quello del deserto, visto un tasso di umidità decisamente maggiore. Non vediamo l’ora di andarcene.
Rino ed Elvira, sono già partiti da un pezzo. Ormai i nostri compagni sono sempre in anticipo e non viaggiano più con noi.
Alle due di pomeriggio, fradici di sudore, carichiamo le moto e volgiamo “la prua” verso Essaouira, una fra le più belle cittadine dell’Atlantico. I 180 chilometri di strada quasi dritta, li percorriamo in breve tempo, con un paio di soste, giungendo in città verso le 18. L’albergo che troviamo non è male: c’è una piscina, è tranquillo ed è a pochi metri dalla spiaggia, frequentatissima di bagnanti e bambini.
E’ molto fresco, ma costantemente nuvoloso. Rino ed Elvira, in città da prima di pranzo, suggeriscono di mangiare in una serie di banchetti ove vendono pesce fresco, cucinato immediatamente dopo averlo scelto, alla brace. Non male l’idea, anche se un piatto di gamberi arriva quasi crudo ed uno dei quattro astici sembra avariato! Il tutto, comunque, per 15 euro a testa.
Dopo cena facciamo una passeggiata nella medina che si rivela, da subito, affascinante.
26/8
La giornata ad Essaouira è del tutto tranquilla e rilassante. Iniziamo il nostro giro cittadino sotto un cielo plumbeo che, via via nel corso della giornata si apre. Ripercorriamo tutte le vie viste la sera prima. Oggi, naturalmente, i negozi e le botteghe sono aperti e curiosiamo un po’ ovunque. Buona parte della mattinata, visto l’imminente ritorno di Cristina a Milano, con un volo prenotato, ma senza un posto di fatto riservato, la trascorriamo al telefono con l’agenzia viaggi di Milano. Mandiamo anche un fax di diffida. Seguiamo con ansia gli sviluppi della vicenda.
Il giro della cittadina è piacevole e rilassante. E’ pulita, ed i marocchini non sono assillanti come nei posti sino a allora visitati. Perdiamo Rino ed Elvira che, evidentemente stanchi delle nostre soste, proseguono il giro da soli. Li ritroveremo solo in serata in albergo.
Tutti i prezzi praticati per i vari generi merceologici sono esposti al minimo: ad Essaouira i commercianti non trattano.
Mi capita un fatto veramente spiacevole: entro in un negozio e tratto (poco) l’acquisto di due babbucce per Marco e Valentina. Il negoziante mi chiede 130 dirham. Al ragazzo negroide consegno 200 dirham ed attendo il resto di 70, dicendogli che a Marrakech le avrei pagate solo 120 dh. A questo punto mi chiede 120 dh, facendomi intendere che mi avrebbe restituito i 200 appena dati. Invece si tiene i 120 dh, e mi dà il resto di 70 che aspettavo. Nulla più. Non sente ragioni. Chiamo Giovanni e gli altri e lo minaccio di chiamare la polizia locale e quella turistica. Andrea, Cristina e Laura escono da negozio e vanno a chiamare un poliziotto.
Arrivano un militare dell’esercito ed un poliziotto urbano. Il francese perfetto di Giovanni chiarisce i fatti, ma fanno ancora gli gnorri. Perdo la calma, dico che vado a chiamare la polizia turistica (ben più severa di quella locale) ed alla fine, quasi di autorità, mi riprendo i 200 dh, restituisco i 70 e mi faccio ridare i 120 dh. Ovviamente gli piazzo le babbucce sul banco!
Il giro prosegue lungo le mura spagnole fortificate. Cristina compra una collana di corallo, Laura un tappeto e due lampade di pergamena, io due piccoli paralumi. Ce ne andiamo di gran carriera, consapevoli che, avanti di quel passo, potremmo acquistare l’intero paese!
27/8
Siamo pronti per partire per Casablanca. Rino ed Elvira sono già in viaggio. Daniela è non è stata benissimo durante la notte. Forse l’astice della sera immediatamente precedente la giornata di ieri, o i gamberi poco cotti le hanno fatto male. Non se la sente di partire, ha un febbrone da cavallo; ha un mancamento e, con Andrea, l’adagiamo sul letto. Si riprende un po’, ma chiaramente, teme un viaggio, sia pure come passeggera, così lungo. Casablanca, penultima tappa, è a 350 chilometri!
Verso l’ora di pranzo, propongo di chiedere alla reception dell’albergo se c’è la possibilità di farla accompagnare, con noi al seguito in moto, con un taxi. Daniela, senza isterismi e di buon grado, accetta la soluzione. Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione. Il giorno dopo l’aereo attende Cristina ed i problemi ancora da risolvere per la sua prenotazione sono tanti!
Partiamo intorno alle 14,30: il taxi con Daniela davanti e noi dietro. Ogni tanto Daniela, che è distesa sul sedile posteriore, si alza e getta uno sguardo dietro di sè per vedere se ci siamo. Spero che la nostra vista la rassicuri e la tranquillizzi. Arriviamo a Casablanca alle 20,30. Daniela sta un po’ meglio, ma è molto affaticata. Mangia qualcosa di leggero e si distende. Terminiamo la serata in un Mc Donald del centro. Dopo giorni e giorni di cous cous e tajine, apprezzo oltremisura il doppio cheese burger con le patatine fritte.
28/8
Siamo in aeroporto per tempo. Malgrado tutte le difficoltà incontrare per trovare posto sull’aereo che ricondurrà Cristina a Milano, confermate sino alla sera prima, al check-in staccano, senza fare una piega, la carta d’imbarco. Tiriamo un sospiro di sollievo. Indugiamo con lei per un po’, perché facciamo fatica a separarci. Rino scalpita per ripartire e, alle 13, la lasciamo. E’ un strappo, la guardo mentre si incammina verso l’ingresso dei “voli in partenza” e, pur consapevole che fra qualche giorno la rivedremo a Milano, sento già la sua mancanza. Resta negli occhi di tutti noi il suo sguardo, il suo sorriso dolce ed aperto, mentre nella nostra mente, in un attimo, riviviamo l’allegria dei giorni passati insieme.
Daniela sta decisamente meglio, si è ripresa in fretta, sale in moto e si dichiara pronta per partire. La strada per Tangeri scorre veloce sotto le nostre ruote. E’ tutta autostrada, senza nulla di interessante da vedere. I quasi 400 chilometri, li percorriamo in poco meno di cinque ore, con una sosta piacevole, dopo Rabat, da Pizza Hut. A Tangeri ultimo pieno e a nanna per l’alzataccia della mattina successiva.
29/8
Il nostro viaggio in terra marocchina è terminato. Dopo 2.700 chilometri percorsi, attendiamo di salire sulla nave (la stessa che ci ha portato qui) per poterci riposare e dormire. E’ in ritardo: finiamo per imbarcarci alla 15, anziché alle 11 previste. Questa volta le formalità sono brevi, velocissime e facilitate da una mancia ad funzionario della dogana.
Durante il viaggio non facciamo altro che dormire e bighellonare da un salone all’altro. Arriviamo a Genova alle 23, circa, del 31 agosto, con un ritardo di oltre sei ore sulla tabella di marcia originaria. E’ fresco, una corsa in autostrada ed i saluti al casello di Milano.
Giovanni e Laura mi accompagnano quasi fino in garage. Li abbraccio.
1/9
E’ sera. Sono atterrato da poche ore all’aeroporto di Fiumicino e lo stesso amico che era venuto a prendermi per accompagnarmi in quello scalo venti giorni prima, mi ha riaccompagnato nel mio casale di campagna.
Disteso su una sdraio in giardino, guardo le stelle. Ora so come è il cielo nel Sahara e rivivo, con la mente e con il cuore, la sensazione stupenda di quell’immensità silenziosa ed incombente.
LE TAPPE:
GENOVA-TANGERI
TANGERI – CHEFCHAOUENE
CHEFCHAOUENE – MEKNES
MEKNES – AZROU
AZROU – MERZOUGA
MERZOUGA – OUARZAZATE
OUARZAZATE – MARRAKECH
MARRAKECH – ESSAOUIRA
ESSAOUIRA – CASABLANCA
CASABLANCA – TANGERI
TANGERI – GENOVA
Per un totale di 2.700 chilometri, circa, percorsi in 15 giorni.
Di Piero Pieri